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di Pietro Modiano

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9 Maggio 2009

Si sta formando una sorta di senso comune sulle origini della crisi, di cui il dibattito sul Sole dà molto bene conto. Il professor Tabellini giovedì ha indicato alcune cause: «Un banale errore di valutazione» da parte di operatori incapaci di stimare correttamente i rischi; il modello che separa erogazioni dei prestiti da detenzione del relativo rischio, che comporta «ovvi problemi di azzardo morale»; le agenzie di rating, che «hanno un ovvio conflitto di interesse». E poi la remunerazione dei manager. E gli errori della regolamentazione, che hanno amplificato la pro-ciclicità delle banche, quanto all'erogazione dei prestiti (nella fase positiva, per Basilea) e alla vendita dei titoli (in quella di crisi, per il mark to market). Come non essere d'accordo.
Eppure - lo dico spinto dal bisogno di capire fino in fondo i nostri errori, e il futuro della comunità finanziaria – c'è ancora qualcosa di non chiaro. Quello che risulta alla fine, è che per un motivo o per l'altro abbiamo sbagliato tutti a dare un prezzo corretto ai rischi. Ma se è così, non è affatto banale, tutt'altro.
Il rischio - di credito - è in sé l'asset class più importante di cui vive il mercato finanziario. Non sono i bond argentini, o russi, o le azioni internet. È l'intero rischio di credito che è collassato, la materia prima di ogni scelta finanziaria, non una parte "eccentrica" di quel mercato. E questa è forse la novità vera della crisi. Un bel problema.
La possibilità di misurare il rischio, si dice, è ciò che ha portato l'umanità fuori dalle superstizioni e dal dominio degli aruspici. E il mercato finanziario mai come oggi è stato dotato di strumenti, intelligenze, organizzazioni di mercato, tecnologie di trasmissione di dati e di informazioni in grado di misurarli bene, i rischi, e di ridurre gli spazi dell'incertezza. È un mercato organizzato in modo tale che chi sbaglia il prezzo di un asset è punito prontamente da chi usa meglio di lui le informazioni.
E poi, non è forse vero che questo sistema finanziario è, per come è organizzato, quello che più di ogni altro si avvicina a quei modelli di concorrenza perfetta – libertà di entrata e uscita, informazione diffusa, pluralità di operatori - che ci insegnavano a Economia Uno? E allora non è più vero che la concorrenza porta ad adeguare sistematicamente i prezzi ai valori sottostanti, e a evitare l'instabilità?
Sono domande che mi sembrano non irrilevanti, ma a cui non trovo risposte del tutto convincenti nelle spiegazioni di senso comune. Per questo, mi rimane il dubbio che, al senso comune che si sta formando, sfugga - talvolta capita - qualcosa di grosso e complicato. Perché, per esempio, in realtà non siamo sicuri che il prezzo dei titoli oggi tossici fosse "sbagliato" per l'intrinseca tossicità di quei titoli. Se guardiamo i grafici, il valore (troppo alto) dei derivati di credito, formulati nelle investment banks, è andato esattamente in linea con i tassi (troppo bassi?) praticati dalle banche commerciali ai loro clienti.
E allora? Vuol dire che l'errore l'hanno fatto tutti, tutti insieme, e quindi bisogna capire se l'origine era nel mercato - secondario - dei derivati e delle cartolarizzazioni piuttosto che in quello - primario - del banale credito alle famiglie e alle imprese. Certo, quei prestiti finivano impacchettati, e quindi uscivano dai portafogli e dai rischi delle banche. Da qui il moral hazard. Ma anche qui non tutto è chiaro: perché, per esempio, le investment bank che li acquistavano, questi titoli poi tossici, non pretendevano un premio legato alle asimmetrie informative, di cui - sospettose come sono - erano ben al corrente, un premio di cui si parla peraltro nei manuali di finanza dagli anni 70? Davvero nelle sale operative delle banche americane e nei comitati crediti di quelle europee tutti insieme si sono fatti prendere, così a lungo, da comportamenti così non razionali, diciamo così autolesionistici?: le banche commerciali sbagliano sistematicamente i prezzi ai clienti sui loro prestiti (anche su quelli non cartolarizzati, si badi bene) e le investment banks se li comprano sottocosto?, su un mercato così concorrenziale?, su un mercato così sofisticato? È una spiegazione che spiega? In realtà apre altre domande, ancora più complicate di quelle a cui risponde.
Va ancora verificato bene, d'altra parte, quanto i tassi d'interesse e i prezzi dei derivati di credito fossero davvero "sbagliati". Oggi lo diamo per scontato, e ci affanniamo a capirne le ragioni giacché si sono corretti "per catastrofe", da fine 2007, e i titoli correlati sono diventati famosi per essere tossici. Gli spread delle banche commerciali - il sottostante dei titoli tossici - sono passati, sui crediti a qualità medio-bassa da meno di 100 punti base a quasi 2000. Sbagliati anche loro? Non è così chiaro - non lo era allora - quando i tassi bancari mostravano comunque una correlazione fortissima con tassi di default di imprese e famiglie stabilmente, dal 2003, ai minimi storici (sotto lo 0,5%, per la medesima categoria di prestiti), che sembravano convalidarli in pieno. Le banche, così, ne escono un po' meglio.
E forse allora l'origine della crisi va trovata non in tassi "troppo bassi", ma - più banalmente - nella discontinuità creata nell'economia reale dall'aumento dei prezzi di greggio e materie prime, che ha prodotto un'impennata dell'incertezza sui profitti delle imprese. E allora l'origine della crisi sarebbe di vecchio tipo (come il 1973?) amplificata sì dal mercato finanziario globale, ma di vecchio tipo.
  CONTINUA ...»

9 Maggio 2009
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